KEY LIGHT: Luce e Cinema V
E’ online il quinto articolo della rubrica curata da SHOT Academy ‘Key Light: Luce e Cinema’ pubblicato sulla rivista ‘Luce & Design‘.
LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA
ovvero
dipingere con la luce.
Probabilmente il sogno di ogni direttore della fotografia è fare un film su un pittore. La luce cinematografica trova continua linfa e alimento dalla storia dell’Arte. Se molti direttori della fotografia vengono considerati, e non a torto, dei pittori, non possiamo non considerare i pittori come dei direttori della fotografia ante litteram. Nel ‘600 la pittura sviluppa un senso estetico tutto nuovo nella produzione di immagini. Velasquèz, El Greco, Caravaggio, Annibale Carracci, Rembrandt, De La Tour sono tutti pittori che usano la luce per raccontare, per emozionare, per dare azione – etimologicamente drama – ai loro dipinti.
Il viaggio di Key light fa tappa con ‘Girl with a pearl earring’ di P. Webber, DoP Eduardo Serra, film tratto dal romanzo omonimo di Tracy Chevalier. Un film che non è un ritratto o la storia del pittore, ma piuttosto è la storia del rapporto fra il pittore olandese Johannes Vermeer (interpretato da C. Firth) e Griet (interpretata da S. Johansson) la serva di casa. E, poi, il film è la storia di un dipinto, il ritratto di un ritratto.
‘Non volevo che la gente uscisse dal cinema pensando che ogni fotogramma fosse un dipinto’. Già candidato all’Oscar nel 1998 con il film ‘The wings of the Dove’ di Iain Softley, con questo film Eduardo Serra ottiene la seconda candidatura nel 2004 (quell’anno la statuetta fu assegnata a Russell Boyd per ‘Master and commander’ di P. Weir). Il DoP portoghese ha creato un paradigma fotografico seguendo lo schema scenografico della casa del pittore: la cantina, il piano terra e lo studio. Gli esterni, invece, sono tutti rigorosamente ‘freddi’, complementari agli interni rigorosamente ‘caldi’.
‘Ci sono molte oscurità nel film, quanto basta per far vedere qualcosa allo spettatore. Non bisogna dimenticare che nel ‘600 non esisteva l’illuminazione stradale e nelle case la luce se ne avevi bisogno veniva sempre portata’.
Analizziamo la luce dello studio del pittore. ‘Ho usato la stessa illuminazione che avrei usato su un film contemporaneo data la storia e la location. Lo studio aveva le finestre da un lato ed esposte a nord. Gli atelier di pittura erano costruiti così per avere la luce sempre morbida dal momento che il sole non era mai diretto. Il nord è l’esposizione migliore per mantenere la continuità della luce. La luce principale viene dalle finestre. E questo è quello che ho fatto. Ho messo una forte luce proveniente dalle finestre e fatto piccole variazioni a seconda della situazione o dei dipinti che realizzava. Piccoli aggiustamenti sulle tonalità della finestra in modo da far sembrare che fossero aperte o chiuse.’ Indicativa la scena quando Griet alza uno ad uno gli scuri delle finestre dello studio.
Il Nord, non come esposizione, ma come latitudine, suscita inevitabilmente sensazioni ‘fredde’. La città di Delft, nell’Olanda meridionale, è una Venezia capovolta: fumi, cattivi odori e il freddo blu della luce del Nord. Il freddo chiama la foschia, la nebbia. Il carattere iconografico del film e tutta l’atmosfera creano quella terza dimensione virtuale che avvolge sensorialmente lo spettatore costretto nella bidimensionalità dello schermo. Questa percezione translogica permette di ‘sentire quello che si vede’ – primo movimento – e di ‘vedere quello che si sente’ – secondo movimento –. E’ il gioco speculare dell’opera aperta, per citare Eco. Vermeer è sedotto, attratto da Griet, artisticamente e, senza alcun dubbio, sentimentalmente. Il ritratto comincia a vivere di vita propria dal momento in cui il pittore capisce che con l’orecchino di perla l’opera sarà completa. La stessa Griet ne rimane sconvolta (vedere quello che si sente…). Appena concluso il ritratto, infatti, nella scena successiva Griet corre dall’amante. Il loro amarsi sancisce questa nuovo ‘vedere’, ‘sentire’.
La scelta degli obiettivi Cooke S4, unitamente alla scelta della pellicola Kodak Vision 2 500T usata con scarsa luminosità, stressando, così, i neri, sono gli strumenti che hanno permesso al direttore della fotografia portoghese di restituirci due livelli di immagine: uno, l’immagine softnet che ci proietta nelle atmosfere di quei luoghi e di quei tempi; due, il rumore delle basse luci sono gli strumenti per ‘dipingere’ il film con la tecnica del pointillè (la tecnica della granitura, diversa dal pointillisme di un Seurat per intenderci). La pellicola quando è costretta ad impressionarsi con poca luce produce rumore, ovvero l’elemento fotosensibile dell’emulsione si aggrega con spessore generando così una grana visibile. Più prosaicamente, per fare un esempio, è come guardare la realtà attraverso una zanzariera con la trama grossolana. Con questa tecnica, incredibilmente, il colore diventa trasparente, soprattutto se il gioco fotografico è condotto con delle alte luci ma diffuse.
Molti pittori del ‘600 usavano la camera oscura per perfezionare la tecnica e quindi il dipinto. Questo spiega alcuni degli effetti di fuori fuoco che si riscontrano nei dipinti di Vermeer, effetto tipicamente cinematografico riscontrabile nell’uso di una ridotta profondità di campo. Guardare la realtà attraverso una lente abbatte le nitidezze dell’occhio: possiamo immaginare la qualità del vetro d’ottica dell’epoca, altro che immagine pastosa….
‘Uso sempre la 500 ASA, ma a volte uso più di un film negative quando devo separare drasticamente due mondi o due stati d’animo. Ho usato la pellicola 5263 della Kodak appositamente per lo studio. E’ un negativo molto morbido. Il resto degli interni l’ho girato con la Kodak 5218, un negativo sempre 500 ASA. E’ stato uno dei primi film girati con questa pellicola che ha sostituito la 5263. Per gli esterni ho scelto la Fuji Reala 500 Daylight. Non avevo mai usato questa pellicola. Di solito uso negativi bilanciati al tungsteno, con l’uso dei filtri di conversione. Ma per questo film, visto che stavamo girando in Lussemburgo, e sapevo che avremmo girato fino all’ultimo minuto di luce e cioè fino alle 03:30 a dicembre e a gennaio, volevo essere in grado di avere un effetto negativo equilibrato. Normalmente uso il filtro, ma avendo a che fare con questa luce giorno dopo giorno ho pensato che fosse meglio avere un negativo bilanciato. E così ho girato con la Daylight.’
Il lavoro del direttore della fotografia non si è fermato all’esplorazione della pittura di Vermeer. Le scene ambientate nella cucina trovano ispirazione nella pittura di Giuseppe Maria Crespi, il pittore bolognese del ‘600. Di nuovo quelle sensazioni di fumosità che immergono lo spettatore in una reale, concreta dimensione sensoriale. ‘Non è stato niente di nuovo o di diverso da quello che faccio di solito. Non stavo rispettando la luce dei quadri di Vermeer. Ho lavorato su delle location come faccio normalmente. Solo perché hai a disposizione dei costumi del 17° secolo, la gente pensa: “Oh, sembra Vermeer.” Ma quando illumini e rispetti la fonte naturale e i personaggi sono vestiti in costumi contemporanei, nessuno penserebbe “Oh, che luce”. L’illuminazione deve essere molto naturale, non deve distrarti.’
In questo filologico fotografare, anzi, cinematografare, gli interni sono carichi di rosso. Candele e torce illuminano non solo gli ambienti ma le emozioni. In questa riproduzione a lume di candela Serra ha concettualmente illuminato con le candele ma non poteva essere così realistico. Anche quando crediamo che una scena sia illuminata dalle sole candele – cosa possibilissima con le attuali sensibilità dei sensori – il direttore della fotografia ricorre a degli artifici per restituire realismo. Le sole candele, incredibile a dirsi, piuttosto restituiscono falsità. La realtà è il punto di partenza. La finzione il punto d’arrivo. Ma la finzione cinematografica è ‘vera’, come le emozioni che si provano guardando un film.
‘Quando sei realistico con le candele la scena diventa molto drammatica e distrae perché l’effetto è troppo forte. Per il lume di candela, ho mantenuto un livello luminoso basso ed ho utilizzato alcune chinese ball light filtrate con una full CTO (color temperature orange) e dei Kino Flo caldi. L’unica cosa che doveva essere realistica in termini di luce doveva essere la luce dello studio’.
(le ball light sono delle lanterne di uso professionale che montano lampade con attacco Edison E27 solitamente a 3200 Kelvin. Filtrate con la CTO, ovvero la gelatina di conversione che sposta la temperatura colore da 5600 Kelvin a 3200 Kelvin, la temperatura colore nativa di una sorgente a 3200 Kelvin viene ulteriormente abbassata verso i 2200 Kelvin, rendendo così l’apparenza cromatica molto più rossa, ndr).
‘Questo film per me è stata una meravigliosa opportunità per parlare di luce naturale e per usare la luce naturale, che cerco di usare nella maggior parte del mio lavoro. Questo film dà l’occasione per parlare e per mostrare alla gente qualcosa, di spiegare il rapporto che esiste tra la cinematografia moderna e la pittura classica. Penso che mi è stata data una grande occasione in tal senso e spero di aver rispettavo il lavoro di Vermeer’. Una scena in particolare, ci permette di godere in pieno il momento: il prologo del ritratto, quando il pittore buca il lobo di Griet. L’inquadratura all’inizio è abbastanza scura. Il movimento di macchina ci avvicina ai personaggi girandogli intorno. Veniamo dall’ombra per finire in luce, in pieno volto. E quel bacio mancato alla fine dell’inquadratura è la luce per il dipinto che si concentrerà tutta nel riflesso sulla perla.
GIRL WITH A PEARL EARRING (2003)
di P. Webber;
Direttore della Fotografia: Eduardo Serra;
TECHNICAL SPECIFICATIONS
Aspect ratio: 2,35 : 1
Negative format: film color negative Kodak Vision2 500T 5218,
Kodak Vision2 500T 5263, Fuji Reala 500D 8592.
Camera: Arriflex 535B.
Lenses: Cooke S4.
Cinematographic Process: Super 35 mm.;
Printed film format: 35 mm anamorphic.
PAOLO CARNERA
Paolo Carnera è uno dei più apprezzati DoP italiani. Ha collaborato con Francesca Archibugi nei film ‘Verso sera’ e il ‘Grande Cocomero’. Ha fotografato i primi due film di Paolo Virzì: ‘La bella vita’ e ‘Ferie d’agosto’. Ha accompagnato nel suo esordio cinematografico Edoardo Winspeare ‘Pizzicata’ e poi in ‘Sangue vivo’, ‘Il miracolo’ e ‘Galantuomini’. Ha collaborato con Sergio Rubini in ‘Tutto l’amore che c’è’, ‘L’anima gemella’, ‘L’amore ritorna’. Per Stefano Sollima firma la fotografia di ‘Romanzo criminale – la serie’ (2008 – 2010), il suo esordio cinematografico ‘Acab’ del 2012, ‘Gomorra – la serie’ e, infine, ‘Suburra’ del 2015 attualmente in sala. In ‘Suburra’ l’impatto visivo è energico. La fotografia è potente e incisiva, senza perdere i tratti di un realismo cinematografico dovuto a una vicenda di così grande attualità. Le inquadrature, i toni e i colori aderiscono alla narrativa del film che racconta una storia marcescente in cui il conflitto è la lotta fra il Male contro il Male.
Che ne pensi del lavoro di Eduardo Serra fatto in ‘Girl with a pearl earring’?
E’ molto interessante per me perché è esattamente all’opposto di quello che faccio. Ha fatto un’operazione raffinatissima. E’ scontato dirlo, ma Eduardo Serra ha fatto un lavoro pittorico. Meraviglioso dal punto di vista delle atmosfere. Senti che la luce naturale è quella che comanda ed è giustamente legata alle atmosfere che cercava Vermeer. Quel mondo non solare, brumoso dell’Olanda. La luce naturale è sempre bellissima ed è sempre molto difficile saperla controllare. Eduardo Serra l’ha riprodotta con una grandissima maestria. La luce naturale può non essere emozionante se la guardi da un’angolazione sbagliata. Pur utilizzando delle sorgenti che sembrano essere naturali e assolutamente giustificate sia di giorno che di notte le ha sapute rendere molto affascinati, emozionanti. E’ quello che cerco di fare quando giro gli esterni notte in location urbane, periferiche. Cercare di far rivedere allo spettatore in un qualche modo stupefacente quella realtà che ha sotto gli occhi tutti i giorni. Cerco di recuperare i momenti più suggestivi che io vedo normalmente girando per la città di notte, scartando quello che è meno interessante. La realtà è il nostro punto di partenza; l’emozione quello d’arrivo. Ed è così anche per ‘La ragazza con l’orecchino di perla’.
Parliamo del tuo lavoro. Abbiamo confrontato ‘L’amore ritorna’, il film di Sergio Rubini del 2004 con cui hai vinto l’Esposimetro d’oro, con ‘Suburra’. Anche se i due film sono stati girati con tecnologie diverse – il primo in film negative e il secondo in ARRI RAW – secondo noi il film di Rubini segna come un giro di boa del tuo ‘fare luce’ che in ‘Suburra’ ritorna. Contrasti forti, colori accesi, poche le scene di colore neutro. Come sei arrivato a definire il tuo stile?
Da un certo momento in poi sono stato più consapevole dei mezzi che avevo a disposizione per esprimere la mia creatività, la mia idea di racconto visivo. ‘L’amore ritorna’ è sicuramente uno dei film in cui ho cominciato ad esprimermi. Ma anche prima con ‘L’anima gemella’, un film a cui sono molto affezionato. E così in tutto il percorso parallelo al di fuori della commedia che ho intrapreso con Edoardo Winspeare, da ‘Pizzicata’ a ‘Sangue vivo’, da ‘Il miracolo’ a ‘Galantuomini’. Tutti film in cui, gradino dopo gradino, abbiamo fatto una ricerca verso un’impostazione visiva sempre diversa ma aderente al racconto.
Ci sono direttori della fotografia, o pittori o fotografi, che hai osservato con particolare interesse nello stilizzare la tua forma?
Sicuramente sì. Mi sono sempre guardato intorno a 360°. Sono interessato alla fotografia pura, ho studiato storia dell’arte, seguo il cinema internazionale con interesse. Interpreto il mio mestiere come un attore nascosto dietro la macchina da presa. Un attore quando gli presentano un ruolo nuovo, deve cambiarsi, trasformarsi, cambiare accento, fisicità, raccontarsi con un età diversa da quella che ha. Così il direttore della fotografia, in base ai film che gli vengono proposti e che accetta di condividere, deve trasformarsi. Se io fotografo una commedia di Siani e subito dopo ‘Suburra’ è chiaro che io devo intrepretare visivamente due mondi opposti, completamente diversi. E non devo sottovalutare nessuno dei due. Di fatto è molto più facile essere emozionanti visivamente con un film come ‘Suburra’ o come ‘Gomorra – la serie’, piuttosto che con una commedia. Non c’è nulla di più difficile che fare una fotografia emozionante in una commedia, anche perché spesso la commedia non cerca l’emozione.
Il direttore della fotografia per ottenere quell’idea di luce che ha in mente usa determinati mezzi tecnici. Ci sono scelte tecniche che hai intrapreso nel tempo per meglio maturare la tua forma?
Uno dei primi obiettivi che mi prefiggo quando giro, per esempio, in esterno notte, come in ‘Gomorra – la serie’, ma anche in alcune scene di ‘Suburra’, è quello di non far sentire la presenza della luce artificiale. Tutte le luci cinematografiche che utilizzo, mescolandole con le luci dell’ambiente urbano, sono filtrate. Nella realtà urbana le luci sono al al sodio, al mercurio. Per questo io non uso più la luce classica al tungsteno, o daylight, oppure non concepisco le notti illuminate dalla luce lunare. Esiste la realtà, la realtà urbana è fortissima ma io cerco di portarla ad un gradino espressivo più alto, studiando, copiando e poi forzando la realtà. Per questo motivo uso spesso delle gelatine (fluorescent o sodium) che convertono la luce cinematografica in modo che la mia luce si fonda con la luce della scena, dell’ambiente. Uso spesso dei proiettori con tubi al neon industriali, non a temperatura di colore standard per mescolare meglio i miei segni luminosi a quelli degli ambienti in cui giriamo.
In ‘Romanzo criminale – la serie’, come anche in ‘Gomorra – la serie’, gli attori spesso sono senza confini. Si muovono a 360°. Come fai? Che soluzioni hai adottato per l’illuminazione e per lasciare agli attori così tanto spazio?
Girando tanto con la macchina a mano è inevitabile avere dei limiti molto larghi. E quindi creo delle atmosfere in uno spazio, in un ambiente. In genere, illuminando l’ambiente e non l’inquadratura, a grandi linee, sono anche pronto a ribaltare il campo di 180°. Ma poi ci sono casi particolari, per esempio gli esterni notte con la pioggia. Se la pioggia non la illumini non la vedi. Puoi far venire giù tutta l’acqua che vuoi, ma se le gocce dell’acqua non prendono luce non le vedrai mai. Se in ogni frammento dell’inquadratura si deve vedere la pioggia, allora ogni frammento dell’inquadratura deve essere illuminato con cura, non troppo, non troppo poco. Anche il cielo nero di notte deve essere illuminato.
A cura di Alessandro Bernabucci, Shot Academy – Formazione Professionale per il Cinema, Roma;
ha collaborato Stefano Di Leo, Shot Academy – Formazione Professionale per il Cinema, Roma