KEY LIGHT – LUCE E CINEMA XIII
E’ online il XIII articolo della rubrica curata da SHOT Academy ‘Key Light: Luce e Cinema’ pubblicato sulla rivista ‘Luce & Design‘.
SHIRLEY – VISIONS OF REALITY
ovvero
la luce della luce
<<Tutto quello che volevo fare era dipingere la luce del sole sul lato di una casa.>>
Incontro del tutto particolare quello che facciamo in questa puntata di Key Light.
‘Shirley – visions of reality’ di Gustave Deutsch (2013) è un’esperienza visiva incredibile, una abbuffata per il senso vista.
I 13 tableaux vivants in cui si articola la storia processano la cultura americana attraverso un viaggio visivo di 30 anni di pittura di Edward Hopper (e 30 anni di storia americana). Il viaggio inizia con “Motel room” del 1931 e si conclude con “Sun in an empty room” del 1961. Apre e chiude il film lo stesso dipinto, che fa da cornice a tutta la narrazione: “Chair room” del 1968.
Il monologo interiore di Shirley, emancipata attrice americana, protagonista assoluta del film (e dei dipinti), è il racconto di una mancata identificazione con lo stereotipo americano.
Il realismo magico dei dipinti (e del film) assegnano al quotidiano un’ esistenza metafisica. La minuziosa resa dei dettagli piuttosto che restituire oggettività conferiscono alle immagini un effetto straniante, che di per sé porta lo sguardo lontano dagli occhi. E’ quello che accade quando, dopo tanto tempo, guardiamo una fotografia. Emergono dettagli che al momento dello scatto non erano parte del racconto.
Jerzy Palacz, il direttore della fotografia, illumina le 13 scene con vivo rigore filologico. Nessuna interpretazione, nessuna visione ‘altra’. Se per molti direttori della fotografia ‘europei’ Caravaggio è il maestro della luce, Edward Hopper ha usato il pennello con emotività cinematografica ed è evidentemente il pittore-direttore della fotografia del cinema americano.
<<Se potessi dirlo a parole non ci sarebbe nessun motivo per dipingere.>> Lo schivo pittore americano stigmatizza così il suo solitario vedere, guardare, osservare ritrarre. Dipingere.
Mai come in questa puntata il termine Key-light è d’obbligo.
Il caldo, il freddo, il giorno, la notte, la pioggia, amore, dolore, felicità, solitudine, come possono essere trasmesse se si usa come mezzo di comunicazione l’immagine? Con la luce. Con la luce chiave.
Guardiamo con convinzione ‘Western Motel’ del 1957. Se osserviamo come cade l’ombra, si intuisce la traiettoria della luce che penetra dalla finestra. In questo modo possiamo intuirne l’ora. Il taglio di luce (altro modo di chiamare la luce chiave) definisce l’atmosfera. Il sentimento che ci arriva attraverso il senso vista è tutto mediato, filtrato dalla luce. Per quanto possa sembrare unica, la luce cinematografica (come quella del dipinto) non è mai tale. Bisogna usare più luci per dare l’illusione che ad illuminare il set sia un’unica luce. Il rimbalzo sulle pareti, sul pavimento, le penombre provocate dalla fill light, impercettibilmente usata per posporre alla luce chiave un’antagonista, sono tutti strumenti in grado di creare profondità, tridimensionalità all’immagine. In una parola: contrasto.
Osserviamo ‘Chair car’ il primo dipinto / scena.
Subito salta agli occhi che il punto di bianco del film risulta essere molto più neutro rispetto alla dominante verde del dipinto. L’aspect ratio del film è 1,85 : 1, differente dalla maggior parte dei dipinti di Hopper che, a volte, sono un anomalo rettangolo con il lato lungo in verticale. Dalle finestre del vagone esonda la luce. Una luce che – ci permettiamo di immaginare – arriva da Ovest. Nella parte in ombra sulla sinistra, invece, spicca il rosso del vestito, unico elemento ‘straniero’ nell’assoluta uniformità tonale e cromatica. Per ripercorrere l’efficienza luminosa dei dipinti di Hopper, dove domina sempre il sole che prepotente entra dalle finestre, Palacz ha usato corpi illuminanti a lente di Fresnel. Questo significa dichiarare la luce incidente con molto forza sia come intensità che come direzionalità.
La lente di Fresnel – pensata dal’omonimo ingegnere francese per aumentare il potere diottrico di una lente ma diminuendo gli ingombri – focalizza la luce con maggior convergenza rendendo la sorgente luminosa più puntiforme. Questo permette di ottenere delle ombre nette. Proprio come fa il sole / luce guardando le ombre sul pavimento del vagone.
SHIRLEY – VISIONS OF REALITY
IL PUNTO DI VISTA DEL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA
JERZY PALACZ
Ci racconti come nasce ‘Shirley – visions of reality’?
Dall’idea iniziale al primo ciak sono passati 7 anni. Non è stato facile mettere insieme il budget necessario. Di solito è il regista che contatta il direttore della fotografia per coinvolgerlo nel progetto. Ma quando, circa quattro anni prima delle riprese, sono venuto a sapere che si voleva fare un film sulla pittura di Hopper era talmente forte il mio interesse per la sua pittura che mi sono proposto direttamente io a Gustav. Ci siamo trovati fin dal primo incontro e abbiamo trovato una base comune molto vitale.
Per un direttore della fotografia fare un film su un pittore è la sfida delle sfide, ma il rischio è sempre dietro l’angolo. Il confronto è inevitabile e di solito non se ne esce bene. Hai illuminato le 13 scene con vivo rigore filologico. Nessuna interpretazione, nessuna visione ‘altra’. Hai evitato un’interpretazione, una personale visione della pittura di Hopper. Hai ‘solo’ incredibilmente imitato la luce dei suoi dipinti.
Non sono molto d’accordo con il credere che un’opera cinematografica sia inferiore ad un’opera pittorica nel caso in cui i due sistemi si ‘sfidino’. Naturalmente, è un compito molto difficile, una sfida nella sfida, infatti, con molti rischi artistici e tecnici. Mi viene in mente il grande Vittorio Storaro e la sua intima relazione con la pittura di Caravaggio. L’uso visionario della luce nei suoi dipinti, l’uso drammatico che fa della luce rende la stessa un elemento dello spazio e non un agente esterno. Il lavoro di Edward Hopper ha ispirato molti registi. Penso ad Alfred Hitchcock, ma anche a Wim Wenders e a Jim Jarmusch, poeti contemporanei di immagini in movimento. Dobbiamo distinguere però tra ispirazione e trasposizione. Shirley è un modo di intendere la pittura di Hopper attraverso una specifica sensibilità. Questa sensibilità si occupa di pittura come di arte, di architettura come percezione dello spazio e di storia come dimensione politica. Questi sono gli assunti del regista. Dal momento che questa sofisticata prospettiva ha incontrato il mio punto di vista artistico, sposandosi molto bene con queste intenzioni, è stato inevitabile immergermi in questo progetto. Gustav ha osato la trasposizione di tredici dipinti di Hopper nel complesso linguaggio cinematografico e li combina con una storia individuale. Abbiamo trascorso molto tempo per ricostruire fedelmente lo spazio dipinto da Hopper in uno spazio costruito, trasportare uno spazio bidimensionale in uno tridimensionale. Gustav è un architetto di professione e un regista per convinzione. Grazie anche alla minuziosa ossessione dei dettagli, queste due combinazioni hanno permesso di raggiungere quel grado di perfezione. Le singole sequenze narrative derivano dall’idea del regista per scoprire cosa è realmente accaduto tre minuti prima e tre minuti dopo il momento chiave di ogni quadro. Lo spazio architettonico, i colori degli sfondi, dei costumi, il movimento dei protagonisti, le caratteristiche della luce, i cambi di luce, l’uso del suono e della narrazione, sono stati gli elementi al centro del nostro interesse.
Un progetto rischioso, produttivamente parlando.
Prima di trovare tutti i soldi, abbiamo dovuto girare una parte, lavorando sul dipinto “Western Motel”. E’ stato il nostro punto di partenza. Da qui sono iniziate tutte le prove tecniche. Uno dei primi test è stato la scelta della macchina da presa. Da dieci anni a questa parte c’è stato una rivoluzione nel mondo del cinema con l’avvento del digitale. Nel settembre del 2009 abbiamo fatto un provino comparativo fra Arri Alexa, Red One e pellicola 35 mm. I risultati ci hanno mostrato i vantaggi e gli svantaggi di ogni tecnologia. Abbiamo optato per la tecnologia digitale. Ed ho scelto l’Alexa. L’uso digitale ci ha permesso di utilizzare grandi monitor calibrati on set con texture altamente precise sia nel colore che nei dettagli. E’ stato determinante poter controllare on set le immagini durante la lavorazione e in particolare poter monitorare i dettagli di ogni frame. Era la necessaria premessa per ottenere delle immagini sul set molto fedeli e, per quanto possibile, più prossime al risultato finale. La pellicola 35 mm. ha colori brillanti, texture nitide e dettagli riconoscibili, ma la mancanza on set di una video assistenza di pari livello ci limitava molto in questo tipo di lavoro. La scelta delle lenti è stata limitata. Durante le prove calcolando le preview per angolo di campo e altezze inquadrate, i miei calcoli hanno mostrato che dovevamo usare un obiettivo zoom con la più vasta gamma. La scelta è ricaduta sullo spherical zoom Angenieux Optimo 24-290 mm. T/2.8
Ci stupisce l’esatta riproduzione. Stiamo parlando di spazialità, profondità, densità dei colori. Di incidenza e riflessione della luce, di spessore delle ombre. Come hai fatto? I legni e le vernici usate per la scenografia, il lighting equipment, i costumi, tutto contribuisce a rendere l’immagine iperfedele all’originale. Sembra di assistere alla ripresa del dipinto piuttosto che alle riprese di un film.
Per studiare alcuni dei dipinti scelti Gustav e la scenografa Hanna Schimek hanno utilizzavano una color palette di fronte alle opere originali in giro per i musei americani dove sono esposti i dipinti per definire esattamente i colori delle pareti raffigurati, i costumi, i mobili ecc. Alcuni dipinti non è stato possibile studiarli dal vero e ci si è affidati a delle riproduzioni. Parlando soprattutto di colore, spesso le riproduzioni non sono mai fedeli. E questo ha reso molto difficile il lavoro. Dopo aver definito il colore di ogni singolo dipinto si è passati a definire i singoli elementi. I mobili, i costumi, le scarpe ecc. Il film è stato girato in 35 gg. Per ogni quadro ci serviva da uno a tre giorni per costruire il set, preparare la scenografia, e realizzare le riprese. Parallelamente, durante le riprese, preparavamo il set per il quadro successivo. Ogni singola scena aveva bisogno della sua luce, della sua atmosfera, del suo ‘sguardo’, di un proprio modo di controllo della luce, di una propria esperienza del colore. Le relazioni tra la luce e le ombre dovevano essere esattamente le stesse dei dipinti. La luce doveva venire da posizioni stabilite con precisione, per soddisfare sia la direzionalità che la giusta intensità. Per questa ragione, per tutto il film ho usato un parco lampade al tungsteno tra i 10KW e 100W, tutti collegati ad un dimmer pack che ci ha dato una grande libertà e flessibilità nel fare la luce. In alcune immagini abbiamo dovuto scendere a compromessi perché il movimento degli attori all’interno della scena provocava degli effetti indesiderati sulla proiezione delle loro ombre. Per trovare la soluzione adeguata, con il supporto creativo del mio gaffer, Dominik Danner, siamo andati oltre i limiti delle nostre possibilità. Abbiamo passato un sacco di tempo, non solo per la ricerca del giusto equilibrio tra le diverse lampade, ma anche per l’impostazione e il rigging di diverse bandiere e gobbi per evitare qualsiasi ombra indesiderata. In alcune delle scene abbiamo dovuto ridipingere la pareti o il fondo, perché abbiamo scoperto che con la luce che utilizzavamo la texture cambiava. La definizione del colore è strettamente legata alle sfumature e alla caratteristiche della luce. Ma queste caratteristiche a loro volta vengono modulate, poiché la luce e la sua riflessione dipendono dal materiale dell’oggetto che viene colpito. A volte è stato un lavoro davvero molto difficile. I dipinti di Hopper sono immagini bidimensionali e sono molto realistici. Ma nel nostro caso non è stato così. Lavorando per la trasposizione in immagini tridimensionali in movimento Gustav ha notato che il cosiddetto realismo è infatti uno spazio distorto, poiché le proporzioni spaziali non sono equilibrate. Ciò significa che i sistemi prospettici non corrispondono o non sono correlati tra loro. Un dipinto ha un punto di vista prospetticamente codificato. E per riportare questa visione prospettica abbiamo dovuto individuare l’esatta posizione della macchina da presa. Ogni scena è stata ‘tagliata’ in più inquadrature ma la posizione della macchina da presa era, necessariamente, sempre la stessa. Fra gli altri, questo è uno dei motivi che mi ha spinto a scegliere lo zoom.
In quale scena / dipinto hai avuto maggiori difficoltà?
Accanto al lavoro creativo sull’impostazione della luce e la realizzazione della relativa atmosfera durante le riprese, è stata molto importante tutta la fase di pre-produzione. Ho dovuto fare un sacco di calcoli matematici per stabilire la lunghezza focale, la profondità di campo, l’angolo di campo e, soprattutto, per definire la posizione della macchina da presa. Ho dovuto usare varie formule e algoritmi. Ci ha aiutato molto FrameForge, un software per storyboard. Per trasporre un’immagine bidimensionale in un’immagine in movimento tridimensionale ci sono molti modi. Una delle possibilità è quella di lavorare in CGI (computer generated imagery, ndr). Questo consente di impostare perfettamente ogni spazio geometrico e architettonico ed impostarlo in base al dipinto da riprodurre nella giusta luce. Ma si creerebbe un lavoro molto artificiale. Gustav, per certi versi, ha deciso di intraprendere la via ‘analogica’. Il suo scopo era quello di rappresentare lo spazio architettonico con la massima fedeltà dei dettagli di ogni dipinto, per salvare la loro atmosfera, piuttosto che ricorrere ad una compatibilità dogmatica. Sapeva che questo sarebbe stato tecnicamente impossibile. Gustav ha ricercato l’essenza dello spazio, la sua verità specifica, non una misura matematica. In questa ricerca dello spazio la luce non poteva essere impostata come nei dipinti. Hopper ha utilizzato la luce come qualcosa che sembra una luce realistica, ma la luce che lui usava, dipingeva, nella realtà non esiste. Nel dipinto “CHAIR CAR” il sole penetra attraverso quattro finestre a destra creando così quattro punti luce. L’effetto è molto bello, soprattutto fra i sedili, ma ricostruire gli stessi effetti di luce naturale prodotti da Hopper era semplicemente impossibile.
Il dipinto “OFFICE AT NIGHT” è un esempio di prospettiva estrema. Tutte le linee verticali sono in parallelo e le scrivanie hanno forti inclinazioni, quasi il pavimento fosse in salita. Nelle nostra scena abbiamo dovuto inclinare le pareti ed è stato molto difficile ottenere lo stesso gioco prospettico sul pavimento.
Nel dipinto “A WOMAN IN THE SUN” la difficoltà è stata abbinare il colore della luce proveniente dalla finestra e che cade sul pavimento con il colore della scenografia definita da Hanna Schimek. Per definire il giusto colore della luce del sole, sul corpo illuminante abbiamo messo diverse gelatine e abbiamo dovuto ridisegnare i colori del pavimento e delle pareti.
Nel dipinto “MORNING SUN” vediamo il sole raffigurato sulla parete. La finestra crea una rappresentazione parallela della luce del sole e dell’ombra del corpo della donna seduta sul letto. Nella nostra scena non era possibile né creare una rappresentazione parallela della finestra, né quella del corpo raffigurato della donna, perché per creare un unico sole ho dovuto usare due sorgenti luminose. Quindi non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo artistico.
Nel dipinto “SUN IN AN EMPTY ROOM” la luce del sole incidente che proviene dal lato destro cadendo nella stanza crea due punti luminosi paralleli. Se si guarda attentamente lo spazio raffigurato è evidente che questo effetto di luce non può avvenire in realtà. Nella nostra immagine cinematografica, è stato molto difficile crearlo. Abbiamo affrontato il problema e lo abbiamo risolto non facendo arrivare la luce del sole dalla finestra ma a filo macchina, dalla prospettiva dell’obiettivo. Era l’unico modo possibile per affrontare con logica questa luce.
Che lavoro hai fatto con il colorist? Avete scelto un look per ogni tableaux vivant prima di realizzare le riprese?
Abbiamo sempre cercato di lavorare per riprodurre con la massima fedeltà ogni dettaglio. Per questo abbiamo deciso di controllare luce, colori e dettagli direttamente sul set. La collaborazione con il colorist è stata una pura formalità. Ci sono voluti solo 5 giorni. Abbiamo eliminato le aberrazioni cromatiche e le distorsioni provocate dalle lenti.
Lo script del film è tutto una voce interiore della protagonista. 30 anni di storia americana riflessi in un flusso di coscienza in cui emergono interessi privati e pubblici. Un cronotopo psicologico in cui sviluppare temi politici, religiosi, sociali. C’è prima la scelta dei dipinti o lo script? In altre parole, c’è un leitmotiv che unisce i dipinti o la scelta è stata solo un puro piacere?
Così come i quadri di Hopper ritraggono sempre Josephine, l’amata moglie del pittore, il film vede protagonista Shirley, una donna emancipata e consapevole del suo tempo. Dal primo dipinto del 1931 fino al 1968 il racconto costituisce una linea storica e critica della moderna cultura americana. La geometria del corpo umano, inserita all’interno di questo spazio, è la materia di questo film. Il compito era quello di trovare una relazione adeguata per i dipinti, per collegarli ad una storia coerente, dando loro vita come tableaux vivants. Finito lo script, Gustav Deutsch ha preparato ogni singola inquadratura di ogni scena, stabilendo l’esatta durata in corrispondenza della voice off. Il metodo non è stato solo l’estetica, ma anche un atteggiamento etico. In altre parole, non abbiamo preso la strada più facile. Lo script, come il film, è una meditazione piuttosto che una riflessione sui dipinti. E’ un invito al piacere, alla bellezza e, per certi versi, un invito a turbarsi.
Quale scena ricordi con maggior affetto / effetto?
“New York movie”.
Nella scena vediamo una donna in un angolo mentre sullo schermo si proietta “Dead End” un film del 1937 di William Wyler. L’architettura della scenografia è stata creata dopo aver fatto le prove per vedere tutti i cambiamenti di prospettiva causati dai diversi punti di vista per girare con diversi take. Per questa scena ho usato tutta la gamma dello zoom Angenieux Optimo 24-290 mm. e ho utilizzato un remote motor control per ripetere sempre la stessa zoomata.
Hai appena visto ‘Shirley visions of reality’. Esci dal cinema e pensi…
Confrontarmi tecnicamente ed esteticamente con la “luce di Hopper” è stato un grande piacere per me. Il gioco di luci e ombre ha avuto un profondo impatto sulla mia esperienza come direttore della fotografia e rimane un punto di svolta del mio lavoro. Il poeta francese della visualità Henri Matisse, ha detto una volta che la precisione e la verità non sono la stessa cosa. Ho fatto del mio meglio per contraddirlo.
SHIRLEY – VISION OF REALITY (2013)
by Gustav Deutsch; Director of Photography Jerzy Palacz;
TECHNICAL SPECIFICATIONS
Aspect ratio: 1,85:1
Camera: Arri Alexa
Cinematographic process: ProRes 4:4:4
Lenses: Zoom Angenieux Optimo 24-290 mm. T/2.8
Printed film format: DCP
Per approfondimenti
https://www.collater.al/shirley-visions-of-reality/
http://shirleyvisionsofreality.com/
https://www.youtube.com/watch?v=Qj_oe08rOTY
https://www.yatzer.com/shirley-visions-of-reality-edward-hopper
http://www.gustavdeutsch.net/index.php/en/films-a-videos/292-shirley-visions-of-reality.html
A cura di Alessandro Bernabucci, education manager SHOT ACADEMY – Formazione professionale per il Cinema, Roma